I Sassi di Tortona

1998

 

Il 27 dicembre 1997, Maria Letizia Berdini rimase uccisa da un sasso tirato da un cavalcavia dell’autostrada Torino-Piacenza.

 

Io non so bene. Non capisco esattamente come sia potuto accadere tutto questo. Sì. Sì. Certo. C’ero anch’io. Ho visto. È chiaro. Ma non saprei dire esattamente cosa sia successo. Chi sia stato a tirare il sasso. Quel sasso… Beh sa, maresciallo, era una serata tra amici. Sa come finiscono queste cose. Qualcuno inizia. Si scherza. Poi qualcun altro lo imita, lo segue. E così via. Gli altri. Sì. Anch’io ne ho tirato uno. Uno piccolo. Ma non so. Non saprei spiegare il motivo. Eravamo lì, su quel cavalcavia. Si scherzava. Una parola. Una battuta. Poi le pietre, i sassi. E la disgrazia. Ubriachi? Se eravamo ubriachi? No. No, che non l’eravamo. Nessuno di noi aveva bevuto. Solo una birra, una piccola birra bevuta al bar di Mario. Sì. Quello all’angolo della piazzetta. Certo, al­l’an­­golo col viale dei Tigli. Sa quello al centro, proprio al centro del paese? Beh. Quella sera c’eravamo visti tutti al bar. Da Mario. Era­va­mo noi otto. C’era il Francesco. C’era il Simone. E poi Luca, Fabio, con la ragazza. E poi c’ero io e mio fratello, il Marco. E la Luisa. Erano le nove. Circa. E noi, noi ci siamo visti là. Abbiamo bevuto una birra.

E poi? Poi ci siamo detti di andare tutti al “Macumba”. Il “Macumba” è una birreria che sta a San Patrizio Sia Lodato. Sì. il paesino qui vicino. Che vuole, il nostro è un piccolo centro: meno di cinquecento abitanti. Niente di più. Non c’è niente. Alle nove tutto chiude e la gente si chiude in casa a vedere la Tv. Per noi ragazzi, non c’è niente. Niente da fare. Così tutto quello che possiamo fare e di andare a cercare fuori qualcosa da fare. Fuori. Nei paesi intorno. Lì c’è una birreria. Là, una discoteca. Nell’altro paese, ancora, la sala biliardo. O il cinema. Vede io lavoro. Lavoro sodo. Lavoro nel laboratorio. Nel labora­to­rio di mio zio. A sedici anni ho lasciato la scuola e mi sono dato da fare. Con mio zio. Come artigiano. Lavoro. E guadagno. E pago le tasse. Questa enormità di tasse con le quali il governo ci soffoca. Sempre.

La sera io finisco di lavorare tardi. E non c’è mai niente da fare. Ho vent’anni, sa. Mica sono sposato, io. Mi voglio divertire, io. Ne avrò pure il diritto dopo avere sgobbato tutto il giorno? Così, ogni sera, dopo il lavoro, mi ritrovo con gli amici al bar. Al bar da Mario. Ma non c’è mai niente da fare. Lì da noi. Così andiamo nei paesi vicini. O in città. A divertirci. Quella sera è andata così. Come le dicevo. Stavamo al bar di Mario. Una birra. Quattro chiacchiere niente di più. Qualcuno dice: “andiamo al Macumba. Vediamo che si dice, là”. E così, ci met­tia­mo in macchina e in pochi minuti siamo là, davanti al Macumba. Ma il locale è chiuso. Così ci guardiamo in faccia.

“Andiamo al cinema” dice qualcun altro. No. Sì. La solita storia. Alla fine saliamo in macchina e andiamo tutti a Luperino, al ci­nema “Belve­de­re”. Ma anche lì, niente. Il film è una palla micidiale. Una cosa strana. Incomprensibile. Così, neanche finisce l’intervallo che ce la siamo filata. Via. Insomma alle undici siamo ancora per strada. Senza nulla da fare. Così a qualcuno viene in mente un’idea. Un’idea stramba: “perché non andiamo a vedere le macchine passare sul­l’auto­stra­da?” Qualcuno dice sì. Qualcuno, no.

Io ne avrei fatto a meno. Avrei preferito tornare a casa. L’indomani mi sarei dovuto alzare presto. Per andare al laboratorio, a lavorare. E così l’ho detto. Gli altri hanno insistito. Mi hanno anche un po’ preso in giro. Dicevano che per una sera fare tardi non mi avrebbe certo fatto male anzi… mi avrebbe anche distratto. Non mi avrebbe fatto pensare a Donatella che sono già tre mesi che mi ha la­sciato nonostante che io… insomma sì… nonostante che io le abbia più volte detto… che sì insomma era una puttanata che io e lei… insomma non si stava più insieme. Come le dicevo, sono tre mesi che la Donatella mi ha la­scia­to. Io volevo bene a Donatella. Ma lei… lei mi ha lasciato perché… perché dice che io non alcuna ambizione. Mentre lei… lei studia. E vuole andare a Milano. A fare l’università. Lei… mentre io… io sgobbo e mi faccio un culo così tutti i giorni. A lavorare. Al laboratorio. Di mio zio che… lasciamo perdere…

Certo non è che è stato perché la Donatella mi ha lasciato che ho accet­ta­to, quella sera, di andare con loro… sul cavalcavia. E che non mi andava di andare a casa presto. A fare che? A non dormire perché penso a lei? A guardare la televisione che poi fa certi programmi che fanno proprio schifo? Così mi sono detto “ma sì andiamo. Infondo gli amici servono a questo: a farti stare meglio quando tu sei nella merda”. Così sono andato anch’io con loro. Poi… poi sì, insomma non era certo la prima volta che facevamo una cosa del genere. Sì, dico, non era la prima volta che andavamo lì, su quel cavalcavia, a tirare i sassi sulle macchine che passavano. Anche prima che la Donatella mi lasciasse, eravamo già stati là. E delle volte era venuta anche lei, la Do­natella, là con noi. Mi ricordo che una volta si incazzò moltissimo. Eravamo poi restati litigati anche tre giorni per quella cosa. Mi ricordo anche che proprio quel­la sera, mio fratello Marco centrò in pieno un ca­mion. Avesse sentito che botto, maresciallo! Quello sì, avevo pensato, avrebbe potuto anche finire male. Il camionista doveva essersi proprio spaventato quando il suo mezzo era stato colpito. Aveva anche sbandato e rischiato di uscire di strada. Si era poi fermato ed era sceso dal mezzo. Avesse visto com’era incaz­za­to! Inveiva e bestemmiava. Noi siamo scappati via di corsa. Ridendo e pensando che poi quella cosa non l’avremmo più fatta. Invece… invece l’altra sera ci siamo tornati.

“Senza fare niente” aveva detto qualcuno

“Giusto per vedere chi passa” aveva aggiunto un altro.

“Giusto per vedere quelli che se vanno”. Ecco sì. Giusto per vedere quelli passare e andare via. Lontano. Lontano da qui. Dove viviamo noi. E dove noi rimaniamo. Così siamo andati lì. Sul cavalcavia dell’autostrada. Ma, mi creda maresciallo, non volevamo davvero fare male a nessuno. Giusto per dare un’occhiata a passare il tempo. Ci siamo quindi trovati con le facce incollate alla grata del cavalcavia. Mentre le auto passavano. Passavano. E noi resta­va­mo fermi. A guardare. Senza fare niente. Con quella grata a separarci dal mondo che… correva via, lontano. Poi qualcuno, mi pare il Fabio, ha preso un sassetto e ha detto: “Vediamo chi lo tira più lontano”. E così ci siamo messi a giocare. E a scherzare. Ma non si tirava alle macchine. No! Tiravamo al bordo della carreggiata. Quando le macchine non passavano. A vedere chi era il più forte, il più bravo. Poi… poi qualcuno, mi pare il Marco, per sbaglio ha colpito il telone di un camion. Ma non è successo niente. Il telone ha attutito il colpo ed è finito che ci siamo messi a ridere sulla cosa. E, visto com’era andata, abbiamo iniziato a tirare i sassetti piccoli sui camion telonati che passavano. Visto com’era andata la prima volta, c’era­va­mo detti, non succederà niente. I camionisti neanche se ne ac­cor­gevano. E così abbiamo continuato per un po’. Ma di camion, di camion telonati, ne pas­savano davvero pochi. Chissà mai perché. Così qualcuno, non saprei chi – forse il Luca, forse il Marco, non so – ha cominciato a tirare sulle macchine. Ma tirava solo sassetti piccoli. Quelli che neanche te ne accorgi. Non so, a un tratto cosa c’ha preso. Abbiamo cominciato a tirare. A tirare a più non posso. A ripetizione. Quasi a raffica. Ma sempre sassetti piccoli. Quelli che… “nemmeno te ne accorgi”. E si rideva. E si scherzava. E io non lo so. Guardavo loro. Guardavo le macchine che passavano. Le guardavo correre via. Lontano. E pensavo: “loro vanno via e io rimango qui”. Le vedevo così passare, correre lontano come a farsi beffe di noi. Almeno così mi sembrava. Avevo caldo. E sentivo ridere. Mentre le macchine passavano. E vedevo gli amici. E il sasso. Quel maledetto sasso che mi stava vicino. Lì, quasi attaccato al piede. Era un sasso piuttosto grosso… che mi provocava. Sì, mi provocava. Almeno così mi sembrava che fosse.

Non so che m’è preso. Guardavo gli amici. E le macchine. Pensavo a me. Mi sono sentito solo. Come se fossi condannato a rimanere sempre su quel cavalcavia mentre, invece, quelli dentro alle macchine, che pas­sa­vano sotto, andavano via. Mi dicevo: “guarda, quelli se ne vanno. Hanno un posto dove an­da­re. Mentre tu? Tu no. Tu stai qui, con il Luca, il Simone, il Marco, il Fabio con la ragazza. E la Luisa. E con quella stronza della Donatella che ti ha lasciato. Anzi, no. Con lei, no, non più”.  Allora non so. Forse non c’ho visto più. O forse no, forse è stata la volta che c’ho visto meglio. Così, senza dire un cazzo, mi sono chinato. Ho preso quel sasso. Quel cazzo di sasso che, per combi­na­zione, o per provocazione, mi stava lì, vicino al piede. Ho preso il sasso e l’ho tirato. E quella donna è morta.

 

 

 

 

 

 

3 – i sassi di tortona