Io sono popolo

Una donna sulla scena. Intorno solo alcune cassette di frutta. Indossa una tutta da operaio, calzata a metà con la parte superiore che le penzola lungo i fianchi. Ha una maglietta con un logo sul davanti: Coca Cola, Nike, Adidas oppure altro. Non ha importanza. L’uno vale l’altro, ciò che conta è ciò che rappresentano: marchi.

La donna  racconta  la sua storia che è quella però di milioni di persone che, abbandonate a se stesse, vivono nell’incertezza di un sistema che ormai premia solo pochi per dannare gli altri.

Il suo racconto diventa così una condanna senza appelli. Inesorabile nei confronti di una classe dirigente il cui fallimento è nei fatti, una élite imprenditoriale, finanziaria, politica, intellettuale, massmediatica sempre più autoreferenziale, incapace di rappresentare interessi che non siano parziali se non particolari.

 

 

Il teatro è teatro e basta. In quanto tale, è rappresentazione di quella realtà che, ci piaccia o no, ci vive intorno e con noi interagisce. Allora scrivere, parlare di questa realtà significa – prescindendo da analisi politiche, sociali, culturali – entrare nell’ordine delle cose, nei fatti, dandogli una chiave di lettura che sia credibile e non pura mistificazione. Il presente testo non ha quindi alcuna velleità se non dare pura rappresentazione a quello che oggi è il nostro quotidiano, il mondo in cui viviamo senza infingimenti, ipocrisie e pie, salvifiche, illusioni. Ci piaccia o no questo è oggi il nostro mondo, una realtà che è andata progressivamente distrutta lasciando solo macerie di esistenze inconsistenti: noi. Ovviamente questo nei limiti propri del teatro che, come detto, non è approfondita analisi sulla contemporaneità che, nella complessità del suo divenire, meriterebbe la pubblicazione di centinaia di tomi che, in sintesi, possano esporre nella brevità le migliaia di tesi che sono alla base di un pensare politico ben più strutturato e approfondito.